Introduzione
La critica femminista e postcoloniale ha di recente dedicato crescente attenzione alla preminenza delle pratiche – anche violente – di contro-soggettivazione e autodeterminazione del soggetto femminile nei confronti dei più tradizionali approcci universalistici all’emancipazione. Coerentemente con l’emergere di questa sensibilità, si è assistito, nel corso degli ultimi decenni, al proliferare di lavori empirici improntati al tentativo di portare in luce i contraddittori risultati di alcune pratiche sviluppate da soggettività femminili entro contesti politici precedentemente trascurati dagli studi di genere, come quelli dominati da organizzazioni della destra tradizionalista (Bacchetta e Power 2002).
La presente rassegna mira a contestualizzare e sintetizzare i risultati dei principali studi che si sono occupati di indagare il potenziale emancipatorio riscontrato in una di tali circostanze: l’esperienza politica della Mahila Aghadi – sezione femminile dello Shiv Sena, organizzazione dell’estrema destra nazionalista indù – nell’area urbana di Mumbai.
In primo luogo, si cercherà di fornire alcune indicazioni indispensabili per contestualizzare l’esperienza dello Shiv Sena (§ 2) e i legami tra questione femminile e Hindutva [1] (§ 3) entro la cornice storica ed epistemologica della realtà postcoloniale indiana, facendo particolare riferimento alla categoria di società politica, per come è stata presentata nei principali lavori di Partha Chatterjee. In secondo luogo (§ 4), si prenderanno in esame più da vicino le principali chiavi di lettura con cui, in termini complessivamente convergenti, i principali lavori dedicati alla Mahila Aghadi hanno tentato di esplicarne il carattere emancipatorio. Infine (§ 5), tramite l’illustrazione dei risultati delle ricerche incentrate sui miti fondativi della Aghadi, si proverà a segnalare i limiti teorici entro cui il suo richiamato potenziale emancipatorio sembra dover necessariamente rimanere circoscritto.
Lo Shiv Sena nella società politica della “moderna Mumbai”
Quando, nel 1995, veniva data alle stampe l’omonima collezione di saggi dedicata alla «più moderna tra le metropoli indiane», Sujata Patel e Alice Thorner, che ne curarono l’edizione, erano perfettamente consapevoli che proporre la concettualizzazione di «Bombay» come una «Metaphor for Modern India» sollevava questioni ben più ampie di quelle ascrivibili a una riflessione di carattere meramente urbanistico (Patel e Thorner 1995). Per meglio dire, all’indomani della spirale di violenza interconfessionale propagatasi con apici significativi proprio nel capoluogo dello stato del Maharashtra, e che effetti tanto duraturi avrebbe dovuto imprimere nella struttura degli equilibri elettorali dell’Unione Indiana (Hansen 1999), non sarebbe stato possibile, secondo gli autori, concepire la paradigmaticità della città in questione senza un esplicito riferimento a quanto di più intimo essa, nell’accezione più radicale del suo essere – in senso lato – polis, si presta a rappresentare, e cioè la conformazione politica delle forze sociali che la costituiscono. In questo senso, la presente ricostruzione non può che partire dall’accogliere la suggestione che emerge dalla scelta di dedicare, nell’ambito dell’opera menzionata, un’apposita sezione alle tematiche della «politica, del populismo e della violenza» (ibid.), cogliendo così l’opportunità di collocare le specificità della modernità di Bombay non solo in relazione alle contraddizioni tra i suoi sfarzi e la sua miseria, tra i suoi splendenti grattacieli e l’immensa estensione dei suoi slums, ma anche e soprattutto nel contesto del panorama politico che negli ultimi decenni ne ha determinato la conformazione, di cui certamente lo Shiv Sena costituisce l’esempio più controverso e allo stesso tempo più emblematico.
Nato ed elettoralmente cresciuto, proprio nella metropoli maratha, nel 1966 su iniziativa di Balasaheb Thackeray, giornalista locale, lo Shiv Sena (“Esercito di Shivaji” [2]) è tutt’ora una delle principali forze politiche della regione, oltre che un’organizzazione di crescente influenza nell’intero Paese. Nel corso di complesse vicissitudini, che hanno visto il suo fiero regionalismo propendere verso un altrettanto radicale richiamo all’identità nazionale (Palshikar 2004), è accaduto che il suo spiccato orientamento al pragmatismo, il suo culto del leader carismatico e il suo costante richiamo alla violenza, sia simbolica che agita, ne abbiano fatto una delle più virulente manifestazioni del contemporaneo Hindutva (Jaffrelot 1996). Come è stato possibile – bisognerà in prima istanza chiedersi – che un cospicuo numero di individui appartenenti agli strati più marginali della “moderna Mumbai” sia giunto a vedere, nel Sena, un utile strumento per avanzare, fuori da qualsiasi orizzonte progressista-universalistico, una concreta istanza di conseguimento di vantaggi immediati, ricambiando per questo i quadri dirigenti della stessa organizzazione con un supporto, elettorale ma non solo, che ha permesso loro di conquistare significative quote di potere? Per rispondere a tale quesito, e spiegare quindi il formidabile successo di questa formazione – la cui ideologia è stata definita dagli studiosi «ethnic, nativist or […] religiously chauvinist» (Patel e Thorner 1995, xxv) – nella metropoli più economicamente prospera e vivacemente multiculturale del Subcontinente, potrà essere utile introdurre alcune chiavi teoriche in grado di rendere conto delle modalità con cui alcune specificità della modernità postcoloniale indiana si siano declinate nell’esperienza dello Shiv Sena nel territorio di Mumbai.
Il valore semantico stesso dell’espressione “postcoloniale”, ove adeguatamente recepito nella sua capacità di indirizzare una problematica dal tenore epistemologico, oltre e forse prima ancora che storico, ha d’altronde un termine di riferimento più che autorevole nel contesto indiano, almeno nell’esperienza degli «studi subalterni» (Mellino 2005; Mezzadra 2008). Proprio da uno degli autori che maggiormente hanno legato il proprio itinerario teorico all’approccio subalternista, quale certamente è Partha Chatterjee, proviene l’elaborazione della categoria di società politica (Chatterjee 2001; 2006; 2011), la cui capacità di dare ragione degli aspetti più apparentemente contraddittori dell’esperienza dello Shiv Sena a Mumbai dovrà ora essere brevemente approfondita. Tale formulazione, consapevolmente elaborata nel corso di un dialogo critico nei confronti della più tradizionale dottrina della suddivisione tra società civile e dello Stato, si presta a designare lo spazio teorico entro il quale situare il configurarsi delle relazioni politiche in un contesto in cui le categorie della moderna filosofia del diritto, di matrice europea e liberale, sembrano essere solo parzialmente in grado di descrivere la realtà sociale cui si riferiscono. Nelle circostanze di una costituzione materiale presso cui gli abitanti dell’India «sono per la maggior parte cittadini portatori di diritti, nel senso immaginato dalla costituzione, solo in maniera tenue, e comunque [...] ambigua e limitata al contesto» (Chatterjee 2006, 54), e per questa ragione possono essere meglio inquadrati da un riferimento alla prassi concreta delle tecniche di governo, nell’accezione foucaultiana dell’espressione (Foucault 2009) – a cui le masse del Subcontinente hanno dovuto abituarsi ben prima di poter accedere ai benefici di una cittadinanza giuridicamente sanzionata in senso pieno –, a diventare terreno della contesa politica è proprio la relazione colta da un’epistemologia governamentale, quella che cioè permette di fare luce sulla dicotomia governanti/governati, piuttosto che sulla più classica dinamica della rappresentanza liberal-democratica. La società politica, allora, nella visione di Chatterjee, si presenta quale multiforme ambito di contrattazione tra gruppi di popolazione – che programmaticamente non mirano a identificarsi quali fruitori dei diritti universali annessi al proprio status di cittadini, bensì come sezione del corpo sociale i cui bisogni specifici acquisiscono una dimensione moralmente sanzionata – e apparati statali interamente dediti all’attività di governo e alle sue esigenze. Ed è la società politica a costituire la dimensione in cui, spesso oltre i confini della legalità, si va sviluppando una «nuova forma di democrazia» (Chatterjee 2006). Tale spazio magmatico, terreno fertile al contempo per la “politica dei governati” e per le più svariate forme di populismo, su cui germinano parimenti le strategie di “emancipazione” subalterna e le aspirazioni personali delle molteplici figure intermedie del mecenatismo semi-corrotto congenito al sistema politico, appare il più consono a contestualizzare la dinamica che ha determinato il successo dello Shiv Sena.
La più articolata ricostruzione della capacità del Sena di far breccia nell’elettorato del capoluogo maratho, che è stata fornita da Julia Eckert nell’ambito dello studio: The Charisma of direct action. Power, politics and the Shiv Sena (Eckert 2003), sembra del resto comprovare questa interpretazione. Ivi, sono riprese e organicamente declinate le principali chiavi di lettura con cui i ricercatori hanno inquadrato lo Shiv Sena, in particolare la struttura organizzativa, costituita da una dialettica efficiente tra l’indiscusso ruolo autoritario del capo supremo e la capillare ramificazione della rete militante (Gupta 1982), la politica culturale – che è, al contempo, funzione politica tout-court per le modalità con cui viene declinata nel territorio (Heuzè 1995) – e la capacità di indirizzare una serie di misure di welfare a vantaggio degli associati (Katzenstein 1979; 1997). Nella sintesi originale di Eckert, che in accordo con Hansen riconosce il ruolo cruciale della performatività della violenza quotidiana nella vita dell’organizzazione (Hansen 2001), l’attrattiva esercitata dallo Shiv Sena sulla popolazione cittadina («The charisma of direct action»), in particolare quella maggiormente marginalizzata, viene individuata nella capacità del partito di offrire una risposta immediata («Make the things done») alle problematiche quotidiane della vita degli slummers, a cui vengono offerte le opportunità di esercitare un ruolo effettivo nelle micro-dinamiche della politica urbana e di trovare conforto entro un’identificazione comunitaria in grado di mitigare gli effetti corrosivi dell’anomia della megalopoli consumistica (Eckert 2003). Sembra dunque proprio tale articolato meccanismo di scambio tra quadri politici e subalternità sociali residenti nelle periferie metropolitane ad aver costituito la base del successo dello Shiv Sena, in una dinamica strettamente tipica di quella che, da Partha Chatterjee, è stata definita, come sappiamo, la società politica dell’India contemporanea.
La società politica come terreno per l’emancipazione femminile nel contesto indiano
Nel momento in cui getta luce sui meccanismi di funzionamento maggiormente controversi della “democrazia più grande del mondo”, la categoria di società politica si impone come termine di interlocuzione obbligato per qualsiasi riflessione che abbia di mira la questione emancipatoria nel contesto postcoloniale indiano. È ben motivata, quindi, la proposta di Nivedita Menon – tra le autrici che si sono più diffusamente occupate del tema – secondo cui «feminist politics [...] will have to surrender its reliance on [...] civil society and [...] to wage a struggle in political society» (Menon 2004, 219). La già richiamata polivalenza insita nella “condizione postcoloniale” – circostanza storica e ineludibiltà teorica – indica del resto un punto di non ritorno nella possibilità di concepire in modo non problematico l’emancipazione nei termini del pieno accesso alle prerogative della cittadinanza liberale, quale fruizione di diritti universali tutelati in forza di legge (Mezzadra 2004). Il parziale insuccesso riscontrato dall’approccio legalistico alla questione dell’emancipazione femminile nel contesto indiano ha pertanto contribuito in maniera considerevole a legittimare il progressivo proliferare di una «feminist politics beyond the law» (Menon 2004), le cui principali determinanti storiche e teoriche converrà ora brevemente approfondire.
In prima istanza, si presenta la necessità di fissare il dato, empiricamente documentabile, che certifica, a termine di decenni di politiche normative indirizzate a tale scopo, la sostanziale incapacità del sistema politico-sociale indiano di porre un freno alla persistenza di una profonda asimmetria nelle relazioni di genere con i soli mezzi offerti dal meccanismo legislativo (Agnes 1997; 2004). Le diagnosi di tale circostanza possono dipanarsi entro le dimensioni discorsive solcate da molteplici – e altrettanto rilevanti – approcci teorici, che hanno messo in risalto l’irriducibilità dell’istanza di genere alla categoria indifferenziata della cittadinanza (Smart 1989) e i limiti dell’universalismo legislativo, specie ove, imposto unilateralmente a uno strato sociale culturalmente disomogeneo, risulti destinato a produrre sistematicamente «the experience of justice as legal-administrative operation» (Samaddar 2012, 160). Un’ efficace sintesi di quanto di più significativo emerso da tali direttrici analitiche è stata fornita dalla già menzionata Nivedita Menon, in una serie di lavori che hanno messo in luce come l’affidamento esclusivo delle istanze femministe alla legislazione sia destinato, nel migliore dei casi, a rimanere improduttivo sotto il profilo di un reale mutamento dei rapporti sociali, quando non risulti apertamente un fattore drenante, nella misura in cui consegna alla proceduralità governamentale la prerogativa di determinare un canone della femminilità – il più delle volte concepito in termini piuttosto riduttivi e tradizionalisti – al quale, in un processo di forzato adeguamento, tutte le donne reali debbano conformarsi (Menon 2009). Ridotte ai termini più essenziali, e contestualizzati in un bilancio dell’esperienza storica del movimento femminista indiano, le critiche dell’autrice alla possibilità di coniugare aspirazioni emancipatorie e legge possono essere espresse come segue:
(a) that the law is not enough, it can only be part of a wider struggle; (b) that more legislation often means only increasing state control; and (c) that legal reforms offer no challenge to the social and systemic basis of the oppression of women (Menon 2004, 207).
In questa prospettiva, perciò, la prassi femminista dovrebbe situarsi nella direzione di un approccio preminentemente politico all’emancipazione, in luogo che giuridico, mirando al coinvolgimento diretto delle donne nei processi decisionali concreti che, di volta in volta, incidono sulle tematiche rilevanti da un punto di vista di genere. Suggerendo il politico come ambito privilegiato della strategia femminista, tuttavia, Menon è pienamente consapevole di spostare la riflessione su un terreno alquanto ambivalente. La decostruibilità del dato del diritto positivo a mezzo dell’idea della giustizia (Derrida 2003), del resto, introduce inevitabilmente alla constatazione dell’irriducibiltà reciproca di visioni in aperto contrasto su quale criterio debba determinare il perimetro del giusto e dell’ingiusto. In tale congiuntura, che marca il passo di un’impasse storica prima ancora che teorica, nel corso degli ultimi decenni si è assistito, nel contesto indiano, a un’ulteriore complessificazione della multiscalare dimensione su cui si gioca la cruciale partita delle politiche identitarie. Mentre così, in una singolare inversione dei compiti, la coalizione di destra nazionalista che guida il Paese ha assunto l’inedito ruolo di paladina dell’universalismo legislativo a tutela delle donne del Subcontinente – con il chiaro scopo di usare tale indirizzo per comprimere ulteriormente le prerogative delle minoranze presenti sul territorio, in particolare di quella musulmana (Basu 1998) – determinando un certo ripensamento del riferimento universalistico nella politica femminista e laica (Roy 2010), proprio sul fronte dell’Hindutva si sono originate alcune delle esperienze che sembrano aver colto più proficuamente – in maniera di certo inconsapevole – certe suggestioni di autrici femministe quali, ad esempio, Nivedita Menon.
In tempi recenti, non in controtendenza rispetto a una tendenza dal respiro globale, si è andata sviluppando una crescente attenzione sui rapporti tra organizzazioni della destra ultra-conservatrice e istanze di genere nel contesto indiano (Bacchetta 2004). La galassia multiforme della Sangh Parivar [3], la cui influenza nel Paese è andata decisamente crescendo nel corso degli ultimi decenni, è stata così fatta oggetto di una serie di studi che si sono concentrati sulle organizzazioni femminili che operano al suo interno (Sarkar 1996). Senza trascurare le problematicità che derivano da una concezione alquanto binaria dell’identità di genere (Bacchetta 1999) e alquanto escludente in relazione all’identità religiosa, molti di quanti si sono accostati a un’indagine di tali formazioni non hanno potuto fare a meno di constatarne l’attrattività nei confronti di un numero crescente di donne di confessione induista. Più in particolare, come ha ampiamente argomentato Kalyani Menon, le principali sezioni specificatamente femminili delle realtà legate all’Hindutva – quali la Rashtra Sevika Samiti, la Durga Vahini e la Matri Shakti – rappresentano un’opzione in costante crescita nel gradimento delle donne del Subcontinente proprio in virtù delle opportunità in un certo senso emancipatorie che offrono loro (Menon 2010). In analogia con il campo d’indagine aperto dalle riflessioni di Partha Chatterjee, è possibile individuare tali risultati emancipatori proprio nello spazio d’azione che queste organizzazioni si sono aperte ai confini della legalità. Più che dalle iniziative in favore delle istanze di genere – spesso nei fatti perseguite in modo inconseguente – di cui il BJP, propaggine istituzionale della Sangh Parivar, si è fatto promotore nel corso dei decenni in cui è rimasto saldamente alla guida del Paese, in una significativa sintonia con quanto suggerito da Nivedita Menon la componente femminile dell’Hindutva sembra avere trovato in tale contesto le opportunità di coinvolgimento che ne hanno decretato il successo (ibid.).
Si può certo discutere se il carattere ideologico della destra induista non rappresenti a tutti gli effetti un limite invalicabile per l’emersione di istanze realmente emancipatorie, secondo quel meccanismo magistralmente illustrato in un intervento di Spivak diventato ormai classico (Spivak 1988); resta vero, tuttavia, che «lo stesso dibattito femminista post-coloniale» ha messo ampiamente a critica «una rappresentazione stereotipata delle donne subalterene del “terzo mondo” come mere vittime di di-spositivi di assoggettamento e riduzione al silenzio» (Mezzadra 2008, 72) e, in questo senso, pur convenendo con Sikata Banerjee sull’inopportunità di attribuire indistintamente a questo genere di esperienze femminili l’attributo di femministe (Banerjee 1996; 2000), la capacità delle organizzazioni femminili dell’Hindutva di produrre, nei propri membri, una percezione del sé maggiormente auto-determinata non dovrebbe essere sottovalutata a priori. Se si accoglie, pertanto, una definizione di ideologia per così dire meno ideologica, e più legata alle circostanze determinate dalla prassi, per esempio quella illustrata da Louis Althusser, per cui le idee ideologiche sono «atti materiali inseriti in pratiche materiali, regolati da rituali materiali, essi stessi definiti dall’apparato ideologico materiale da cui dipendono» (Althusser 1997, 189), il coinvolgimento diretto acquisisce una certa preminenza – non necessariamente un’esclusività – nei confronti dell’ambito narrativo entro cui si inserisce. È comprensibile, allora, come tanto più promettente si sia prospettata l’indagine delle opportunità emancipatorie che emergono in un’organizzazione, quale è la Mahila Aghadi – letteralmente il “fronte femminile” dello Shiv Sena – che si inserisce in un contesto in cui la rigidità ideologica risulta essere assai meno accentuata rispetto a quella riscontrata nelle propaggini più ortodosse della Sangh Parivar.
Sentieri di emancipazione nella Mahila Aghadi
La figura della militante donna nelle fila dello Shiv Sena (vedi ad esempio India Tv), pur essendo rilevabile sin dagli esordi del partito, ha cominciato a esercitare un ruolo significativo, nella pratica e nell’immaginario dell’organizzazione, solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80. In tale fase, congiuntamente al riassestamento della piattaforma ideologica dello Shiv Sena su una visione nazionale pan-induista (Lele 1995), la componente femminile della base militante iniziò ad acquisire una maggiore visibilità, dal momento in cui ne fu legittimata l’adesione massificata a una serie di attività: dalle più apparentemente innocue, costituite da «collective celebrations for women, such as kaldi-kumkum (turmeric and vermilion) and karwa chaut (prayers to prolong a husband’s lifespan) festivals for married women» (Sen 2007, 89), alle più cruente, come «violent, Sena-organized morchas (protest marches)», «aggression to opposite wife-beating», o particolari tecniche di «“invisible” violence, which involved subtle humiliation of their Muslim neighbours» (ibid.).
Traducibile altrettanto correttamente con “fronte femminile” e con “le donne di fronte, le donne in prima fila” (Bedi 2016), l’espressione Mahila Aghadi, che proprio in questa fase storica dovette divenire d’uso sempre più comune, non indica tanto una formazione indipendente contraddistinta da obiettivi propri – che, in senso formale, non è mai esistita – quanto piuttosto un ambito di attivazione, in cui alcune delle autrici che più se ne sono occupate hanno voluto individuare uno spazio di possibilità per la realizzazione di un riequilibrio delle relazioni di genere nel contesto della politica dello Shiv Sena. Tale precisazione, mentre permette di circostanziare una cautela preliminare, che induce a prendere in considerazione il fatto che le opportunità emancipatorie cui a breve si farà cenno non siano distribuite equamente tra le militanti dello Shiv Sena indipendentemente da una serie di variabili decisive – quali la provenienza sociale, la posizione occupata nell’organigramma del partito, la specificità della condizione familiare, ecc. – consente altresì di indirizzare immediatamente la questione della Mahila Aghadi su un terreno che ha molto meno a che fare con una politica consapevolmente femminista che con una pratica del quotidiano in cui gli spazi di rivalsa femminile emergono come conseguenza di una prassi performativa che trova in se stessa il proprio significato valoriale (Bedi 2006).
Dallo studio antropologico condotto da Chitra Deshpande su un campione scelto di militanti dello Sena, del resto, risulta limpidamente come, pur nei limiti dell’eterogeneità delle soggettività cui si è fatto cenno, le opportunità emancipatorie siano relativamente più marcate nella componente femminile – piuttosto che in quella maschile – dell’organizzazione (Deshpande 2005). Il più completo esame delle ragioni di tale circostanza, oltre che delle complessive dinamiche inerenti la politica della Mahila Aghadi, può essere riassunto facendo perno sul concetto di «matronage», elaborato da Tarini Bedi al termine del suo pluriennale studio di campo sulla forme della militanza femminile nello Shiv Sena (Bedi 2016). Tale categoria, nella visione dell’autrice, dovrebbe essere intesa come un correttivo della teorizzazione di Chatterjee sulla società politica, il limite della quale, a parere di Bedi, risiederebbe nella riduzione della realtà sociale a una dicotomia – quella già richiamata tra “governanti” e “governati” – da cui rimarrebbe forclusa la questione delle relazioni di genere. Proprio quel rapporto ambivalente tra gruppi di popolazione e agenzie di governo, che tanto valore riveste nelle riflessioni di Chatterjee, viene per questa via ad assumere, nel contesto della Mahila Aghadi, una declinazione contrassegnata da una determinante specificatamente di genere, nella misura in cui risultano essere in primo luogo le donne dello Shiv Sena a rivestire, almeno nel terreno metropolitano di Mumbai, il ruolo di tramite tra le politiche governative e i gruppi di popolazione che fanno riferimento all’organizzazione. Secondo una dinamica non insolita nell’ambito del nazionalismo anticoloniale e postcoloniale, storicamente incline a formulare una convergenza semantica tra la rappresentazione simbolica della “femminilità” e la conservazione dell’identità comunitaria (Chatterjee 1997; Yuval-Davis 1997), tocca infatti spesso alle donne essere percepite come le tutelari di una responsabilità morale nei confronti delle esigenze quotidiane – considerate, in senso lato, domestiche – delle collettività legate al partito. Per questa ragione, come Bedi ha ampiamente documentato in relazione alla periferia suburbana marginalizzata prossima all’area di Film City, sono proprio alcune figure femminili a emergere come le rappresentanti di un tipo di «patronage that relies so heavily on access to local knowledge, and the provision of everyday things such as housing, water, food, fuel, electricity, and protection against sexual predators» (Bedi 2009, 345), nel segno di quella che potrebbe essere definita, a tutti gli effetti, una femminilizzazione della società politica.
La formazione di una serie di figure intermedie, che finiscono per detenere quote di potere significative nell’esteso ambito della politica informale della metropoli subcontinentale, non esaurisce comunque le opportunità emancipatorie fornite dall’operato della Mahila Aghadi in seno alla società politica. Più in generale, infatti – e in favore di una platea più estesa di soggetti – Bedi fa riferimento alle categorie di “dashing” e “daring” entro cui sembra essere racchiuso il senso più profondo della politica performativa delle donne dello Shiv Sena. Tali espressioni – pronunciate di frequente e sempre in inglese dalle informatrici di campo dell’autrice – designano, nel vernacolo quotidiano delle militanti, «someone who is doing brave things all the time» (Bedi 2016, 40). Dietro questo significato letterale deve essere individuato il tentativo di mettere radicalmente in discussione la suddivisione tradizionale delle rappresentazioni di genere. Esse definiscono la prassi concreta di intervento femminile nella risoluzione delle controversie quotidiane, la partecipazione femminile a episodi di violenza e, più in generale, il contributo femminile alla politica assertiva ed extra legale dell’organizzazione. Il consolidarsi dell’associazione alla figura della “lady” dell’attributo di “dashing”, pertanto, da un lato certifica, ma dall’altro contemporaneamente legittima, l’esercizio da parte femminile di un ruolo che, benché in sintonia con le esigenze del partito, si rivela ampiamente anticonvenzionale.
Gli effetti di tale dinamica sono stati particolarmente approfonditi da Atreyee Sen, nel corso del suo importante lavoro di ricerca realizzato in uno slum di Mumbai (Sen 2007). Da quanto emerge in tale studio, in conformità con quanto sostenuto da Bedi, è proprio il carattere violento, escludente e antiliberale dell’organizzazione a offrire, in maniera contraddittoria, le maggiori opportunità emancipatorie per le donne che vi aderiscono. La legittimazione della partecipazione attiva a un contesto in cui «violence is a daily occurrence, negotiation of an informal type» (Heuzè 1995), incide cioè profondamente sull’esperienza quotidiana delle donne dell’Aghadi, consentendo loro di rinegoziare il proprio ruolo di genere in relazione ai differenti gradi delle istituzioni sociali di cui partecipano (dal partito al contesto sociale di provenienza, dal luogo di lavoro alla famiglia). Dal punto di vista delle militanti dello Sena, pertanto «women’s aggressions [...] remained legitimised in advance through a discourse which perceived collective violence and rough justice as a prerequisite for the survival of poor women» (Sen 2007, 68). In questa prospettiva, è in ultima istanza la prassi performativa della politica quotidiana a realizzare – prescindendo dal discorso ideologico in cui è inserita – il proprio potenziale trasformativo, consentendo alle donne che ne sono agenti di conseguire, entro il proprio contesto sociale di riferimento, una reputazione, un’indipendenza e una libertà di azione altrimenti inimmaginabili.
La triangolazione virtuosa tra costruzione del nemico, attivazione femminile e rinegoziazione dei rapporti di genere, che costituisce l’essenza della dinamica emancipatoria per le donne dello Shiv Sena, è riscontrabile con particolare chiarezza nella proliferazione di quella che è da considerarsi una vera e propria saga mitologica costituita delle narrazioni delle militanti del partito. In analogia con quanto è stato rilevato in altre organizzazioni femminili legate all’Hindutva (Menon 2005), infatti, nei quartieri suburbani in cui opera la Mahila Aghadi si assiste al proliferare di uno storytelling, costituito dalla manipolazione di alcune leggende tradizionali, il cui scopo è introdurre nell’immaginario la figura della donna “dashing”. La più significativa di tali narrazioni, come è stato osservato da Sen, riguarda l’invenzione, da parte delle militanti della Aghadi, di un vero e proprio orizzonte utopico, definito come “Sena Samaj”, in cui si può riscontrare l’intenzione, da parte femminile, di eternare la dinamica emancipatoria del proprio presente nello spazio di un futuro idealizzato. A quanto riporta l’autrice, le caratteristiche della ideale società futura (Sena Samaj) dovrebbero essere le seguenti:
First, the society should have the features of a modern army, to maintain honour and coherence in the behaviour of community members. Second, if the society operated like a modern army, the women sainaks would have the freedom to acquire new and more subtle warfare skills (…). Third, if all forms of women’s violence had to be legitimised at the grass-roots level, then women would act as warrior leaders within the home, train their children as soldiers and transform their homes into frontiers (Sen 2007, 164).
L’ultima parte della presente rassegna sarà dedicata a porre in rilievo le valutazioni emerse dall’esame di tale orizzonte mitologico.
Sena Samaj: un mito della rivolta confinato nei limiti della violenza mitica
Se davvero esiste una distinzione tra l’unità originaria del mito e lo sterminato universo delle sue variazioni possibili, essa implica l’esigenza di stabilire un contatto con l’epifania primigenia. È in questo senso che, alla base del mito dello Sena Samaj, come suggerisce Atreyee Sen, sembra trovarsi quella sensazione di potenzialità e immanenza, vissuta dalle donne dello Sena nelle giornate, gloriose e terribili, dei “Bombay riots” [4], che fecero loro percepire «intensively the usefulness and centrality of conflict situations in altering power equations» [5] (Sen 2007). Quale esperienza originaria della possibilità di riequilibrare i rapporti di genere entro la comunità di appartenenza, il ricordo di quei momenti sembra dunque essersi trasfigurato, tramite lo storytelling della Mahila Aghadi, nell’archetipo di una pluralità di saghe mitologiche guidate dal tentativo di introdurre nell’immaginario dello Shiv Sena l’archetipo della rivolta femminile. In questo contesto, figure di eroine antiche, come Jijabay o la regina Rani Savitrabai [6], contribuiscono all’invenzione di una tradizione, induista e maratha, della donna guerriera (Sen 2007), mentre il mito dello Sena Samaj – proiezione del passato mitico in un futuro di riscatto – sembra indicare il desiderio, da parte femminile, di estendere in un orizzonte temporale indefinito i risultati emancipatori conseguibili entro lo spazio e il tempo mitici della rivolta.
Se è vero, tuttavia, che la prassi performativa della Aghadi incide profondamente sulla configurazione dei rapporti di genere entro la comunità induista negli strati marginalizzati di Mumbai, non dovrebbe essere trascurato il prezzo a cui la descritta dinamica emancipatoria si realizza. Ecco perché il mito dello Sena Samaj, pensato come il limite utopico cui la prassi della Mahila Aghadi tende, può rappresentare un efficace elemento di indagine, nella misura in cui consenta di segnalare i confini entro cui la possibilità di recepire un significato emancipatorio nella politica femminile dello Sena deve essere circoscritta.
Ciò che è più importante sottolineare, sempre seguendo Atreyee Sen, è la dinamica temporale implicita in questo genere di narrazioni (Sen 2009). In essa si esprimono, rispettivamente: un legame tra futuro e presente, un legame tra presente e passato e un legame tra passato e futuro.
In primo luogo, esprimendo la temporalità di quella che Derrida avrebbe chiamato la «categoria grammaticale del futuro anteriore» (Derrida 2003), lo Sena Samaj svolge il ruolo di mito di fondazione, alla luce del quale diviene intellegibile la legge costantemente posta e perpetuata dalla violenza mitica delle donne dell’Aghadi, cioè quella particolare conformazione di rapporti di forza che regolano, seppur informalmente, le relazioni intercomunitarie nelle periferie di Mumbai (Sen 2007).
Sempre seguendo questo punto di vista, in secondo luogo, è possibile osservare come il ricorso quotidiano alla forza delle donne della Aghadi sia un’espressione misurata e finalizzata della violenza, fatta routine e normalizzata dall’esperienza quotidiana delle militanti (Sen 2007). La sua dimensione rituale, dunque, che in tale prospettiva emerge, si giustifica come rinnovamento dell’epifania originaria della donna-patria che respinge lo straniero. In ogni attacco della Aghadi, ha sottolineato Bedi, rivive la vendetta di Jijabay, giacché in essa non è semplicemente rappresentata un’icona etno-storica, ma una personalità che le militanti: «pragmatically and performatively had embodied in various occasions and it is through this embodiment that [...] found [...] political destiny» (Bedi 2016, 76).
Il passato mitico di Jijabay, da ultimo, per tramite della quotidianità dell’Aghadi, si congiunge al futuro del Sena Samaj, chiudendo la circolarità del discorso mitico tramite cui avviene la legittimazione delle più efferate pratiche del presente.
Complessivamente considerata nell’articolata tripartizione temporale entro cui si articola – violenza originaria, ripetizione rituale, eternamento utopico nel “futuro anteriore” – la mitologia del Sena Samaj svela così la propria incompatibilità con un mito della violenza liberatrice, da cui si smarca in particolar modo per la sua incapacità strutturale di rinunciare alla figura del nemico – in genere il musulmano – (Sen 2012) esclusivamente pensato nella funzione di vittima sacrificale [7].
In questo senso, l’essenza mitologica del Sena Samaj testimonia come, prescindendo dal suo carattere specificatamente ideologico, l’ideologia materiale dello Shiv Sena, facendo della costruzione del nemico in veste di capro espiatorio la propria forza propulsiva, si configuri come limite di una prassi di emancipazione, giacché richiede strutturalmente la limitazione dei possibili beneficiari del processo emancipatorio stesso. Pur infrangendo i ristretti confini del legalmente consentito, la politica della Mahila Aghadi si dimostra dunque incapace di oltrepassarne gli aspetti più critici, cioè quelli dipendenti da quello che, a suo tempo, Walter Benjamin aveva definito il carattere mitico della violenza [8], cui essa deve fare inevitabilmente ricorso.
Considerazioni conclusive
Nella presente rassegna sono state esaminate le ragioni che hanno consentito ad alcune autrici di identificare un significato – parzialmente – emancipatorio nell’esperienza della Mahila Aghadi nel territorio di Mumbai.
Adeguatamente contestualizzata nella problematicità della condizione postcoloniale di una delle principali metropoli del Subcontinente, la prassi della Aghadi sembra poter mostrare il suo valore più intimo in relazione al contesto della società politica, di cui risulta essere espressione. Come declinazione specificatamente femminile («matronage», nelle parole di Tarini Bedi) di una strategia agita in seno a tale spazialità teorica, la politica delle militanti dello Shiv Sena ha rivelato infatti più di una ragione di interesse, tanto per le donne che vi si sono unite quanto per le autrici che hanno riflettuto su di essa.
La particolare ambivalenza di cui è espressione la società politica, del resto, come rivela la più recente critica femminista e postcoloniale, sembra offrire alle aspirazioni emancipatorie di genere un terreno straordinariamente fertile di sperimentazione, specie se rapportato ai molteplici insuccessi di un approccio esclusivamente legalistico alla questione dell’emancipazione femminile. Se da un lato, infatti, è entro tale contesto che emerge la possibilità per le soggettività subalterne di sollevare l’istanza eminentemente politica di una contrattazione sulla redistribuzione delle risorse, è altrettanto efficacemente nell’ambito di tale area di confine tra legalità ed extra-legalità che si profila l’opportunità di sviluppare una rinegoziazione dei ruoli di genere, facendo a meno dalla rigidità definitoria su cui si basano i processi legislativi.
In relazione a tale dinamica – in modo certamente a prima vista paradossale – nel corso degli ultimi decenni sono andate rafforzandosi nel contesto indiano le organizzazioni femminili legate ai settori più tradizionalisti della società. In un meccanismo in parte contraddittorio, infatti, è proprio in seno a questo tipo di organizzazioni che la partecipazione femminile alla politica agita trova una maggiore accettazione sociale, e proprio per questa ragione tali ambiti si presentano come vie d’accesso a vissuti esistenziali contrassegnati da maggiore indipendenza.
Esperienza particolarmente illuminante per il vaglio di tale ipotesi, la militanza femminile nello Shiv Sena, come hanno rilevato alcune autrici, sembra essersi offerta come possibilità di trasformare radicalmente il proprio ruolo in seno alla comunità, pur rimanendo entro i confini del moralmente accettato. Approfittando delle opportunità di partecipazione alla – per lo più violenta – “politica di tutti i giorni”, le donne della Aghadi sono state in grado di mettere in scena una quotidiana performance del sé che, efficacemente narrata, è arrivata a mettere in dubbio l’assegnazione tradizionale dei ruoli di genere entro la comunità induista di Mumbai, finendo per ribilanciare parzialmente i rapporti di forza entro l’organizzazione, il quartiere d’origine, il gruppo familiare e così via.
Tale esperienza, tuttavia, pur nella sorprendente progressività dei suoi esiti, sembra essere destinata alla parzialità, poiché resta in toto dipendente dalla necessità di far pagare il prezzo del ribilanciamento delle relazioni di genere nella comunità di appartenenza a un altro soggetto marginalizzato (le comunità minoritarie, in particolare quella musulmana). Lungi dal costituire una negazione definitiva dell’opportunità di trasformare la società politica in un fecondo terreno di emancipazione, da ultimo, l’esperienza della Mahila Aghadi – per come sembra essersi sinora evoluta – ne porta in luce le principali ragioni di forza e, al contempo, i principali limiti. Mentre, così, la concretezza e la particolarità di cui sa farsi adeguata interprete alludono a un superamento dei limiti dell’universalismo legislativo, la sua inquietante esclusività sembra lasciare aperto, ancora una volta, l’interrogativo sulla possibilità di immaginare un’ipotesi realmente emancipatoria senza l’ausilio di un qualche riferimento all’universale.
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Note
1. Termine con cui viene indicata l’ideologia dell’estrema destra nazionalista indù.
2. Il riferimento è al famoso condottiero del secolo XVII che respinse l’invasione dell’imperatore Moghul Aurangzeb.
3. Letteralmente “Famiglia di Associazioni”: è l’organizzazione ombrello sotto cui si raccolgono le principali formazioni dell’estrema destra nazionalista indù.
4. Violentissimi scontri verificatisi tra il 1992 e il 1993 tra la comunità indù e quella musulmana, nel corso dei quali persero la vita centinaia di persone.
5. Similmente, forse ancora persuaso dalla realizzabilità di tale impresa, Furio Jesi, componendo lo Spartakus, individuava la radice della complessità del simbolismo delle rivolte di ogni epoca in quella invariante decifrabile nell’aspetto più intimo dell’esperienza urbana dei rivoltosi (Jesi 2000). Radicale frattura nella sequenza del divenire storico della città, infatti, la rivolta si configura come perimetrazione di un ambito spazio-temporale entro cui: «Ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate» (ivi, 25). Come irruzione nel tempo storico del tempo del mito, la rivolta non può confondersi perciò con il processo rivoluzionario: essa non progetta il domani, ma pone in essere, nel qui e ora, il tempo di utopia: il dopodomani. «Si può amare una città» scrive Jesi, «si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente [...] come la propria città» (ibid.).
6. Si tratta di due personaggi storici realmente esistiti, la cui figura ha però assunto una valenza mitologica nel nazionalismo induista. Jijabay fu la madre di Shivaji, il condottiero del XVII secolo che respinse l’invasione dell’imperatore Moghul Aurangzeb; Rani Savitrabai, regina di Bellary, è invece interpretata dalla tradizione come simbolo di un legislatore induista e indipendente (Sen 2007).
7. In sintonia con quanto René Girard ha fatto notare in merito alla funzione sociale del sacrificio (Girard 1992), pertanto, nel contesto analizzato, si potrebbe asserire che è la possibilità di incanalare ai danni dell’elemento estraneo (in questo caso il “musulmano”) le tensioni interne al gruppo di appartenenza che si gioca l’aspirazione di porre fine alla “violenza simmetrica” (cioè tra i membri interni) che genera sofferenza nella comunità.
8. Con l’espressione «violenza mitica», Benjamin si riferisce alla violenza che «crea» e – poiché «incolpa» e «castiga» – conserva «il diritto». Essa, dunque, a differenza della «violenza divina» – forza «fulminea» che «annienta» il diritto – non sembrerebbe avere un potenziale liberatorio (Benjamin 2010).